Le conseguenze della lelocalizzazione selvaggia

Come è noto con il termine “delocalizzazione” ci si riferisce a quell’andazzo, introdotto in concomitanza con l’apertura alla globalizzazione, consistente nel trasferimento al di fuori dei confini nazionali delle imprese e delle sedi legali delle stesse in Stati dove esiste un trattamento fiscale più vantaggioso,  o anche nello spostamento all’estero di tutto il processo produttivo, o  di alcune fasi di esso, per conseguire risparmi sul costo della manodopera, per beneficiare di condizioni economiche più favorevoli offerte da altri Paesi, per migliorare la competitività, o per conseguire vantaggi di altro genere.

Ovviamente la scelta di delocalizzare comporta per lo Stato di origine delle gravi conseguenze non solo a livello fiscale ed economico, ma soprattutto su quello del lavoro.

Se nel mercato globale la delocalizzazione può teoricamente accrescere la competitività e far diminuire il prezzo dei beni prodotti, in genere quasi sempre a tutto vantaggio dell’impresa e non dei consumatori finali, sul mercato del lavoro emergono rilevanti conseguenze sui salari e sulla conservazione dell’occupazione.

Se per un verso lo Stato dove viene spostata la produzione trae un immediato beneficio, dal momento che vengono creati nuovi posti di lavoro, vengono fatti investimenti che ingenerano un aumento di ricchezza in quel territorio, invece nel Paese di origine si riduce drasticamente la richiesta di lavoro e quasi sempre vengono chiuse le aziende e licenziati i dipendenti, con grave danno per tutti, sia per i lavoratori disoccupati, che per lo Stato che deve sopperire a tale evenienza sociale prestando un umiliante assistenzialismo e andare incontro ad un rilevante danno per tutto il suo sistema economico e sociale.

Analoghi danni derivano ai lavoratori ed allo Stato quando con la delocalizzazione viene colpito tutto l’indotto collegato all’azienda delocalizzata che è destinato ad essere cancellato.

L’obiettivo dell’imprenditore che decide di spostare all’estero la sua attività e la stessa sede legale è sempre quello di conseguire un risparmio sulle imposte e le tasse, aumentare le vendite, accrescere il fatturato e quindi realizzare un maggior profitto e non certamente quello di salvaguardare il destino dei suoi dipendenti che pur l’hanno aiutato a crescere.

Generalmente chi delocalizza trasmette poi l’immagine di una impresa che “tradisce” il proprio Paese, danneggiandone l’occupazione e facendo venir meno il contributo fiscale.

In definitiva, come detto, la delocalizzazione comporta necessariamente una riduzione dei livelli produttivi e occupazionali del sito produttivo che viene totalmente o parzialmente dismesso, con notevole danno al tessuto sociale ed economico locale e nazionale.

Le conseguenze risultano ancor più gravi quando l’impresa decide di delocalizzare ha usufruito di contributi pubblici, in quando a tutti gli effetti negativi che derivano della delocalizzazione si aggiunge la distrazione dell’investimento pubblico che, al contrario, dovrebbe essere diretto al rafforzamento della competitività economica locale e alla creazione di posti di lavoro.
Per porre un freno a tale spiacevole conseguenza il legislatore italiano e quello comunitario è intervenuto ripetutamente, ma in maniera poco incisiva e sempre molto disorganica e disordinata, per introdurre dei vincoli alla delocalizzazione delle imprese che hanno beneficiato di agevolazioni pubbliche.

Si va dal d.l. n. 87/2018 (convertito con modificazioni dalla l. n. 96/2018, decreto Dignità).
Il diritto dell’Ue prevede due categorie di vincoli recentemente coordinati tra loro: la prima categoria riguarda gli aiuti di Stato a finalità regionale «agli investimenti» , ovvero gli aiuti di Stato erogati in favore di stabilimenti ubicati in regioni ammissibili agli aiuti regionali e diretti a sostenere investimenti in «attivi materiali e immateriali» di cui al reg. n. 651/2014 (di qui: GBER); la seconda categoria riguarda i programmi co-finanziati dai Fondi SIE, ovvero i Fondi strutturali e di investimento europei disciplinati con il reg. n. 1060/2021.

In particolare, all’art. 14, paragrafi 5 e 16 del GBER si stabilisce che la concessione di aiuti di Stato a finalità regionale che implicano una delocalizzazione da altri paesi dello Spazio economico europeo è sottoposta all’obbligo di notifica individuale alla Commissione ex ante e a controlli rigorosi circa la compatibilità dell’aiuto da parte della Commissione stessa. Gli aiuti a finalità regionale possono essere esentati dalla notifica solo a condizione che il beneficiario si impegni a non effettuare una delocalizzazione fino a due anni dopo il completamento dell’investimento.

Il reg. n. 1060/2021 ha coordinato i vincoli alla delocalizzazione previsti in relazione ai Fondi Sie con i vincoli di cui al GBER. In particolare, agli artt. 65 e 66 si stabilisce che è inammissibile la destinazione del contributo dei Fondi in favore di operazioni di delocalizzazione, con applicazione della norma di cui all’art. 14, par. 16 del GBER qualora il contributo dei Fondi costituisca un aiuto di Stato (art. 66); inoltre lo Stato è obbligato a restituire il contributo fornito dai Fondi in caso di cessazione o di trasferimento dell’attività produttiva al di fuori della regione in cui ha ricevuto sostegno (art. 65, par. 1). Ai sensi del successivo art. 73, l’autorità di gestione nazionale che seleziona le operazioni da sostenere dovrà garantire che tali operazioni non rientrino nell’ambito di delocalizzazioni o trasferimenti di unità produttive.

A livello di diritto interno, prima del decreto Dignità erano stabiliti diversi limiti alla delocalizzazione dal campo di applicazione ristretto a singoli regimi di aiuti di Stato. Nella maggior parte dei casi si trattava di vincoli quinquennali al mantenimento in loco dell’unità produttiva agevolata, il cui mancato rispetto avrebbe comportato la revoca e la conseguente restituzione del beneficio fruito.
Con gli artt. 5 e 6 del decreto Dignità il legislatore italiano ha tentato di ricomporre la frammentazione che caratterizzava la normativa previgente introducendo una disciplina unitaria dotata di un campo di applicazione più ampio.

Le norme di cui ai co. 1 e 2 dell’art. 5 stabiliscono due differenti vincoli: il primo si applica in relazione agli aiuti di Stato diretti a sostenere «investimenti produttivi» e riguarda le sole delocalizzazioni verso Stati extra-Ue o non aderenti allo Spazio economico europeo (SEE); il secondo si applica in relazione agli aiuti di Stato diretti a sostenere «investimenti produttivi specificamente localizzati» e riguarda ogni trasferimento al di fuori del sito produttivo incentivato.

La norma di cui al successivo art. 6 non riguarda direttamente le operazioni di delocalizzazione, ma è diretta a preservare il mantenimento dei livelli occupazionali in seno a imprese – operanti sul territorio nazionale – beneficiarie di aiuti di Stato che «prevedono una valutazione dell’impatto occupazionale». L’impresa decade interamente dal beneficio a fronte di una riduzione dei livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dall’aiuto in misura superiore al 50 per cento per cento, entro cinque anni dalla data di completamento dell’investimento. In caso di riduzioni superiori al dieci per cento – ma inferiori al cinquanta – il beneficio è ridotto proporzionalmente.
Tuttavia, essendo il nostro diritto subordinato a quello sovranazionale, avviene che qualsiasi norma di diritto interno che introduca limiti alla libertà di stabilimento delle imprese è compatibile con il diritto dell’Ue solo se giustificata da ragioni di interesse pubblico e vi sia proporzionalità tra il sacrificio imposto all’impresa e il perseguimento dell’obiettivo.

La delocalizzazione comporta, di norma, il coinvolgimento di due Stati diversi: quello “di partenza”, in cui il sito produttivo viene dismesso, e quello “di destinazione” del trasferimento. Pertanto, per un’efficace attività di controllo si rende necessaria la piena collaborazione dello Stato “di destinazione” della delocalizzazione. La disciplina anti-delocalizzazione di diritto dell’Ue vieta agli Stati membri di sostenere iniziative che comportino una delocalizzazione, tuttavia non solo vi è una difficoltà di riconoscere e di ricostruire tali operazioni, ma si registra anche una determinata ritrosia dello Stato membro “di destinazione” a disincentivare l’investimento di un’impresa nel proprio territorio. Infatti, a fronte delle conseguenze negative che derivano dalla dismissione dell’unità produttiva di “origine”, corrispondono proporzionali riflessi positivi in termini produttivi e occupazionali nel sito di “destinazione”.

Nonostante i buoni propositi del legislatore, dall’esame della disciplina anti-delocalizzazione di cui al decreto Dignità emergono vari problemi di carattere interpretativo.

Inoltre il mancato rispetto dei vincoli comporta unicamente la decadenza e conseguente restituzione del beneficio fruito da parte dell’impresa, ma quand’anche si riuscisse a recuperare il contributo, resterebbero comunque molto più gravi per il tessuto sociale ed economico locale e nazionale le conseguenze negative scaturenti dalla dismissione del sito produttivo.

Lo scopo della disciplina di contrasto alla delocalizzazione non dovrebbe essere quello di limitare il trasferimento dell’attività in quanto tale, quanto piuttosto quello di vietare l’apertura di procedure di licenziamento collettivo e di obbligare contestualmente l’impresa a presentare piani di sopravvivenza del sito produttivo in dismissione.

Come evitare la delocalizzazione? Dopo la fine del blocco dei licenziamenti per il Covid, sono sotto gli occhi di tutti i casi di aziende di grosse dimensioni che chiudono gli impianti in Italia per trasferire le loro attività produttive in paesi dove è minore il costo del lavoro.

L’art. 8 del decreto-legge del 10/8/2023, n. 103, convertito in legge con la legge 9/10/2023, n. 136, ha rafforzato il regime sanzionatorio per le imprese che, dopo aver ricevuto aiuti di Stato subordinati all’effettuazione di investimenti produttivi, delocalizzino l’attività interessata dall’aiuto di Stato al di fuori dell’Unione Europea e dello Spazio Economico Europeo. In particolare, il periodo nel quale la delocalizzazione è sanzionata con la decadenza dall’aiuto di Stato ricevuto, prevista dall’art. 5, co. 1, del decreto-legge 87 del 2018 viene raddoppiato, da cinque a dieci anni, qualora l’impresa beneficiaria sia qualificabile come «grande impresa» ai sensi della raccomandazione 2003/361/CE.

Ciò sta a significare che l’incremento del periodo nel quale la delocalizzazione è sanzionata riguarda le imprese con più di 250 dipendenti o il cui fatturato annuo supera i 50 milioni di euro o il cui totale di bilancio annuo supera i 43 milioni di euro.

Tutto questo però non è sufficiente, lo Stato italiano ha il dovere e l’ineludibile compito di intervenire per arginare un fenomeno che sta indebolendo pesantemente il tessuto economico produttivo nazionale e se non riuscirà ad intervenire efficacemente, il declino del nostro Stato sarà inevitabile ed inarrestabile.

E’ ormai giunto il momento per questa Repubblica di mantenere la sua promessa di una società più egualitaria, fondata sul lavoro e caratterizzata da un’economia non speculativa, a vantaggio di pochi, ma produttiva e competitiva a beneficio della collettività nazionale.

Sapranno coloro che hanno responsabilità di governo affrontare con determinazione e coraggio la sfida che li attende, liberandosi da ogi condizionamento esterno e perseguendo l’esclusivo interesse dell’It